“I pittori, quando dipingono sulle tavole o sulle pareti le storie passate, non soltanto rallegrano gli occhi di chi guarda, ma conservano altresì viva per lungo tempo la memoria degli eventi passati”

(Teodoreto di Cirro, + 466)

È il racconto della storia della nuova diocesi e un suo simbolo, una grandiosa sinfonia di forme e di colori, una bella pagina di catechesi visiva alla maniera dell’antica Biblia pauperum. Vi si intrecciano i due livelli di storia, quello sacro e quello profano. Il livello sacro irrompe con la sua luce e il suo ardore nella storia profana, come sua anima segreta e suo orizzonte compiuto. È definito da una forma ovale, che tipologicamente rimanda, come simbolo della vita, alle “mandorle” con Bambino incluso nelle Madonne marchigiane della misericordia e in tante altre raffigurazioni, o anche al raffinato “uovo” – enigmatico segno di equilibrio e di bellezza formale – della Madonna di Montefeltro di Piero della Francesca.
Fa strada la pergamena dell’arco trionfale con la sua cascata di note gregoriane. La chiave di volta è occupata dallo stemma di papa Giovanni Paolo II, cui si deve l’erezione di San Benedetto a diocesi, con decreto del 30 settembre 1986.

LA TRASFIGURAZIONE

La vasta calotta, al sommo della quale c’è il nome di Dio in caratteri ebraici, è occupata per intero da una grande carta geografica dell’Euro-Asia, una sorta di portolano quattrocentesco con i colori trasmessi dal satellite. Dall’Oriente giunge un affollato volo di colombe, auguranti pace e bene a regioni oggi devastate da terribile guerra.

Nel cuore della calotta s’immerge la parte superiore dell’ovale, con la trasfigurazione di Gesù sul Tabor, tra Mosé ed Elia, presenti i tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, che videro “la gloria di Gesù” (Lc 9, 32).
Dice Luca: “Il volto di Gesù cambiò d’aspetto e il suo vestito diventò candido e sfolgorante; poi si videro due uomini avvolti d’uno splendore celeste: erano Mosè ed Elia” (Lc 9, 23-30). L’evangelista Marco, parlando degli abiti di Gesù “splendenti e bianchissimi”, aggiunge: “Nessuno a questo mondo avrebbe mai potuto farli diventare così bianchi a forza di lavarli” (Mc 9, 3). E l’apostolo Matteo dice anche lui: “il volto di Gesù si fece splendente come il sole e i suoi abiti diventarono bianchissimi, come di luce” (Mt 17, 2). È proprio questo trionfo della luce, simbolo epifanico molto usato dall’apostolo Giovanni, che l’artista ha voluto raffigurare con il Cristo-luce, il cui splendore investe anche gli altri due personaggi affiancati, Mosè ed Elia. I due profeti, come sappiamo, furono invece caratterizzati dal fuoco, il rosso fuoco dello Spirito che riempie tutta la scena: il fuoco del roveto ardente di Mosè che brucia-va come “fiamma di fuoco senza consumarsi” (Es 3, 2); e quello del “carro di fuoco con cavalli di fuoco” (2 Re 1, 11) sul quale Elia fu rapito in cielo “in un turbine di vento”. Per questi riferimenti biblici, propri della memoria, l’artista si avvale dell’espedien-te delle “citazioni in blu”, che sono rimandi a fatti e situazioni del passato e della memoria, ad “archetipi” o radici culturali che arricchiscono e dilatano il racconto pittorico.

Accanto ai tre personaggi celesti, che dialogano tra luce e fuoco, si pongono tre testimoni terrestri, pregni dei colori della carnalità. Gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono sostituiti dai tre unici santi locali: frate Giacomo della Marca, il grande evangelizzatore e uomo di carità, della cui nascita ricorre quest’anno il VI centenario e che è l’unico santo canonizzato della nostra diocesi (Monteprandone 1393-Napoli 1476); e i martiri Basso, vescovo, patrono di Cupra Marittima, e Benedetto, soldato, eroe eponimo e patrono di San Benedetto del Tronto. Sono santi, questi ultimi, dai contorni storici incerti, dei quali esistono però, a testimonianza d’un culto assai antico, chiese romaniche con cripte risalenti a prima del Mille. Genuflessi, si trovano due papi facilmente riconoscibili: Sisto V “il grande”, come lo chiama lo storico Pastor, originario di Montalto ma nato a Grottammare, del cui pontificato abbiamo da poco ricordato il quarto centenario (1521-1590); e Giovanni Paolo II, cui si deve l’erezione dell’attuale diocesi. Il Cristo-luce, alto ben cinque metri, sostituisce bellamente il più tradizionale Cristo Pantocratore, l’Onnipotente, anche a ricordo della festa liturgica della Trafigurazione, fissata in calendario al 6 agosto, giorno in cui giunse a Roma notizia della vittoria dei cristiani sui turchi a Belgrado nel 1456, propiziata da fra Giovanni da Capestrano, amico fraterno di fra Giacomo della Marca. Papa Callisto volle espressamente quella festa come auspicio e simbolo di un’Europa tasfigurata dalla felicità e dalla pace. Auspicio antico, eppur di grande attualità, che spiega il volo augurale di colombe sul vecchio continente, carico di storia e d’affanni. Sotto l’affresco della Trasfigurazione corre la scritta: “Questi è il mio figlio prediletto: ascoltatelo”. La striscia bianca, che è poi un elemento architettonico di collegamento con il vano della chiesa, si collega visivamente con le varie scritte dei santi, al fine di creare una intelaiatura pittorica di sostegno dell’insieme.

 

IL PARADISO

Ed eccolo il Paradiso, cuore di tutto l’affresco! Un paradiso che è tutto piceno, con la Vergine che sta al centro d’una danza d’angeli e di beati. La “citazione” in azzurro, che fa da sfondo, è una danza di angeli e di beati del Beato Angelico, entro un giardino paradisiaco. La Vergine Madre, cui sovrasta la fiamma di luce dello Spirito Santo, campeggia al sommo del tamburo con il Bimbo in seno. È seduta su un trono contrassegnato da due ben riconoscibili monumenti sambenedettesi, che segnavano i bastioni dell’antico castello: sono l’antica torre dei Gualtieri e il campanile della chiesa patronale di San Benedetto. La “citazione” entro la quale si inscrive la Madre col Bimbo è quella dell’Odigitria, la celeberrima icona bizantina raffigurante la “Vergine del buon cammino”. Ed anzi è questo il prototipo da cui deriva, per successivi passaggi, la Madonna della Vittoria (così detta in riferimento alla vittoria di Lepanto del 1571), venerata nella cattedrale come Madonna della Marina. L’artista, traducendo figurativamente l’effato teologico “Caro Christi caro Marine”, e cioè Cristo ha tratto il suo corpo e la sua fisionomia terrena tutto e solo dal corpo e dalla fisionomia della Madre, ha genialmente trasfigurato anche la Vergine, che è investita in pieno della stessa luce della sovrastante trasfigurazione di Cristo. Credo che nella storia della pittura sacra un concetto del genere non sia stato mai sviluppato. L’effetto d’una tale intuizione è pittoricamente efficacissimo. Tutt
‘intorno, con i loro colori terreni, procede il corteo delle persone sante della diocesi, più esattamente di tutti coloro per i quali è stata introdotta la causa di beatificazione.
Sulla sinistra di chi guarda sono effigiati i santi della ex diocesi di Moritalto:
– il servo di Dio Francesco Antonio Marcucci, nato a Force il 27 novembre 1717 e vissuto ad Ascoli, illustre storico e zelante missionario, fondatore delle Pie Operaie dell’Immacolata Concezione o Suore Concezioniste, vescovo di Montalto, vicegerente di Roma, morto ad Ascoli il 12 luglio 1798; l’Artista lo ha raffigurato con la mano tesa ad indicare la Vergine Immacolata, da cui trasse nome per la sua istituzione;
– il servo di Dio Domenico Cesari, nato a Foce di Montemonaco il 16 dicembre 1912, allievo del vescovo Luigi Ferri, soldato e prigioniero nell’ultimo grande conflitto, giovane dalla intensa spiritualità, morto a Roma a 37 anni il 9 marzo 1949; l’Artista lo ha raffigurato in atteggiamento rispettoso ma anche dimesso, quasi a dire la sua pochezza di creatura “perdente” e tuttavia fedele all’amore di Dio;
– la beata Maria Assunta Pallotta, nata a Force nel 1878, entrata nella nascente Congregazione delle Suore Francescane Missionarie di Maria e trasferitasi in Cina, dove morì a 27 anni il 7 aprile 1905, beatificata da Pio XII nell’anno mariano 1954; l’Artista l’ha raffigurata in estasi, invocando “shentì, shentì”, “eucaristia, eucaristia”, che furono le sue ultime parole.
Sulla destra ci sono i santi della ex diocesi di Ripatransone:
– il venerabile Padre Giovanni dello Spirito Santo, nato a S. Benedetto del Tronto 1’8 agosto 1882, sacerdote passionista, morto a Moricone (Roma) a 23 anni il 12 dicembre 1905, le cui spoglie sono ora sepolte nella sua chiesa parrocchiale di S. Benedetto martire: Giovanni Paolo II ha dichiarato nel giugno 1893 l’eroicità delle sue virtù; l’Artista l’ha raffigurato con le braccia levate, ad esprimere l’esultanza per il sacerdozio appena raggiunto;
– la serva di Dio Lavinia Sernardi, nata a Grottammare il 2 giugno 1588, sposa e madre di santa vita da cui nacquero i bimbi Francesco e Margherita (una terza fi-glia, Ifigenia, morì precocemente), morta a Grottammare a 35 anni il 15 settembre 1623; l’Artista l’ha raffigurata nel tenero atteggiamento d’una mamma educatrice, con un largo velo che copre la sua bella ciocca di capelli (il “tuppo”);
– il servo di Dio Simone Filippovic, un bosniaco nato a Seona, frate minore e parroco a Sattisca, ritiratosi a vita di preghiera e di penitenza nel convento di S. Maria Maddalena a Ripatransone dove morì il 9 maggio 1802, le cui spoglie sono sepolte in cattedrale; l’Artista ha dato al servo di Dio il volto del vescovo attuale e, alla maniera antica, gli ha posto in mano la cattedrale di San Benedetto del Tronto in gesto di offerta alla Vergine, che è Patrona della diocesi sotto il titolo di Beata Vergine di Loreto.

LA CHIESA TERRESTRE

È posta al disotto della sfera del divino, con precise connotazioni storico-geografiche. Tutt’intorno al portolano euro-asiatico c’è il mare, il bel mare azzurro della costa adriatica, disseminato di pesci. L’artista ha nella memoria e nel cuore il mirabile pavimento musivo della chiesa di Aquileia, sua terra natale, pieno di pesci fluttuanti su onde marine (ed anzi, piccola curiosità, uno grande ne ingloba uno più piccolo…), e ne ha riproposto una versione tutta moderna e tutta propria, con suggestivo effetto pittorico che dà movimento a tutta la composizione.
Ai piedi del dipinto c’è un affollarsi di lancette e paranze dalle vele variopinte, ove sono leggibili simboli dell’antica marineria e stemmi cittadini (di Montalto e di Ripatransone, le due sedi vescovili fuse insieme, e dell’Abruzzo, regione ove ne è ancor oggi la diocesi), vescovili (dei vescovi Vincenzo Radicioni e Giuseppe Chiaretti), associativi (delle Figlie di Maria e di altre associazioni che curavano la processione a mare).
Al centro, proprio al sommo della cattedra vescovile, c’è la barca a motore, sulla quale è issata la venerata icona della Madonna della Vittoria, che viene portata processionalmente in mare, alla fine di luglio, tra un tripudio di folla e di sole, con un corteo di oltre cinquanta pescherecci a gran pavese al vento. L’icona fu donata, nella prima metà del secolo scorso, da p. Giacomo Santucci da Cossignano, dei Cappuccini di Ripatransone ed è probabilmente opera del pittore teramano Della Monica. Genuflesso dinanzi ad essa c’è mons. Francesco Sciocchetti, nato a Ripatransone il 15 settembre 1863, ‘lu curate de la maréne” per antonomasia, padre fondatore della San Benedetto moderna, esponente illustre del movimento cattolico, amico fraterno dei pescatori per i quali inventò la barca a motore, costruttore della chiesa ora cattedrale negli anni 1904-1908, morto a S. Francisco di California il 3 maggio 1946.
Tra le vele, anch’esso chiuso in una mandorla di fuoco e trasportato sul mare dal suo stesso mantello, c’è il patrono dei pescatori, San Francesco di Paola, contrassegnato dal motto “charitas”che forma aureola di santità, vincitore di nembi e di tempeste citati anch’essi in blu come mostri minacciosi da allontanare, al cui minuscolo santuario locale vanno in devoto pellegrinaggio le genti del mare. Il santo, nel cui volto c’è l’autoritratto dell’Artista, è tutto proteso verso l’alto, in atteggiamento estatico dinanzi alla Vergine e quasi trasfigurato dalla sua luce, come Mosè ed Elia accanto al Cristo, e segna il radicamento nella terra dell’ampia luce cruciforme che fende a metà l’intero affresco, con ottimo effetto pittorico.
Ai lati estremi una fuga di alberi fruttiferi, che rimandano all’altra attività del territorio, quella agricola, ma che si presentano con connotati paradisiaci. Tra il fogliame infatti s’annida una folla d’uccelli monocromi, che fanno il paio con i pesci del mare. Sono proprio questi alberi e questi fiori e questi animali, d’una “naiveté” molto fresca e ariosa, a costituire il segno della bontà genesiaca della natura, cui un francescano, che ha dipinto molte volte il “cantico delle creature”, non poteva non rendere omaggio. Dopo averle create, Dio le vide “belle e buone” e ne fu contento. Non si tratta affatto d’un tributo ad un ecologismo di moda, ma della firma tutta francescana dell’autore. Il quale s’è sottoscritto anche lui dopo la iscrizione dedicatoria, redatta ad imitazione delle scritte votive quattrocentesche: “JOSEPHUS CHIARETTI, PRIMUS EPISCOPUS S. BENEDICTI AD TRUENTUM-RIPAE-TRANSONIS-MONTIS ALTI, A FRATRE HUGOLINO BELLUNENSI, PIETATIS CAUSA ERGA PARENTES SUOS FELICEM ET ASSUMPTAM, A. D. 1993, SUI EPISCOPATUS DECIMO, PINGENDUM CURAVIT A.M.D.G. B.V.D.M.” Questo il dipinto absidale e la sua storia. Ma il discorso non è completo se non illustrassimo alcune “chiavi di lettura”, che ci fanno penetrare meglio nei si-gnificati di esso.

CHIAVI DI LETTURA

 A. TEOLOGICA:

* trinitaria. Tutto fluisce e si ricapitola nel Dio cristiano, che è Trinità santissima, di cui è ricordato il Padre, con il tetragramma in lettere ebraiche di YHWH, Colui che è, il Figlio, con il corpo trasfigurato dalla luce del divino, lo Spirito Santo, che presiede all’incarnazione del Verbo nel grembo verginale di Maria ed alla generazione quotidiana della Chiesa.
*ecclesiologica. Si tratta della Chiesa vista nei suoi due stati: quello del combattimento e della militanza terrena, e quello della glorificazione celeste. Ma è anche la “nostra” Chiesa diocesana, Chiesa giovane, madre di santi per lo più giovani, che vengono da ogni parte della diocesi insieme ad altri protagonisti: da Montemonaco (Do-menico Cesari), da Force (mons. Mar-cucci e la beata M. A. Pallotta), da Montalto (Sisto V), da Monteprando-ne (S. Giacomo), da Ripatransone (p. Simone Filippovic e d. Francesco Sciocchetti), da Cupra Marittima (S. Basso), da Grottammare (Lavinia Sernardi), da S. Benedetto (il martire omonimo e p. Giovanni dello Spirito Santo). Anche geograficamente parlando, possiamo dire che è qui ricordata tutt’intera la diocesi, dai monti al mare.
* escatologica. L’orizzonte ultimo del tempo – come mostra il “paradiso” – è l’eternità, e ad essa il popolo di Dio guarda nel suo cammino tra il “già” dell’avvenuto e il “non ancora” del sopravveniente, ricordando i suoi “novissimi” (morte e giudizio, ma anche risurrezione ed eternità) per non peccare.
* mariologica. Maria, la “sempre vergine” (le tre stelle luminose della Odigitria lo ricordano), è l’anello di congiunzione tra cielo e terra; madre del Verbo di Dio che ha preso forma d’uomo nel suo grembo, e madre della Chiesa; mediatrice anch’essa, subalterna a Cristo, di grazia e di vittoria sul peccato. A Lei, invocata con i più bei titoli, la Chiesa si rivolge con fiducia perchè interponga la sua materna intercessione per la salvezza di tutti.

B. STORICA: È storia della città adagiata in riva all’Adriatico, il mare condiviso con altri popoli rivieraschi, e cioè quelli della ex Jugoslavia, ieri evangelizzati da fra Giacomo della Marca ed oggi scossi da feroce guerra fratricida. Unisce le due sponde lo stesso mare, che nel passato avvicinava i popoli più di quel che non facesse la terrafer-ma, e che deve tornare ad essere ma-re di pacifiche relazioni. La vocazione naturale di San Benedetto è verso i paesi dell’Est: e tutto in questo affresco lo ricorda, a cominciare dai riferimenti alla Bosnia, ma anche dalle icone orientali (il Cristo trasfigurato, l’Odigitria) e dai riecheggiamenti stilistici.

C. ARTISTICA: Quanto all’arte e all’ispirazione dell’Autore non c’è bisogno di spendere molte parole. Parlano di lui le molte opere prodotte nelle chiese di tutta Italia, con un linguaggio personalissimo dalle tinte forti e nette, essenziale e sanguigno, ma anche ingenuo ed incantato. Un linguaggio che ben s’addice ad illustrare la storia di questa nostra Chiesa diocesana, ancor giovane, ma ricca di speranza.

Giuseppe Chiaretti